• Febbraio 2023 •
Nel momento in cui sto scrivendo questo passo, sul suo sito si legge che Beau Lotto è il massimo esperto mondiale di percezione e che la trasformazione inizia con la consapevolezza. Quest’ultima affermazione mi trova pienamente d’accordo, e per essere pienamente consapevoli dobbiamo prima di tutto renderci conto che il nostro modo di pensare è influenzato dalle nostre Percezioni, che è anche il titolo del libro in cui sono riposte le mie sottolineature, che sto riportando alla mia mente, rivivendole sicuramente in maniera differente rispetto alla prima lettura che feci. L’autore è un neuroscienziato e un divulgatore scientifico, che può aiutarci a capire meglio come funziona la nostra mente. Chiarisce subito che
non ci siamo evoluti per vedere la realtà, ci siamo evoluti per sopravvivere. E il vedere la realtà con accuratezza non è un prerequisito per la sopravvivenza.
Pensa di essere un pesce. Dal momento in cui sei nato, sei sempre stato immerso nell’acqua, che ti circonda ovunque tu vada. Hai delle branchie attraverso le quali assumi l’ossigeno che ti è necessario per vivere. Perché mai dovresti preoccuparti, o anche solo immaginare, che c’è dell’altro oltre all’acqua? A cosa serve conoscere il fatto che ci siano altri esseri che respirano l’ossigeno in altro modo? La tua percezione della realtà è sufficiente per sopravvivere. Ora torna in te, ma non dimenticarti del pesce. Credi ancora che la percezione della realtà sia la realtà stessa?
Abbiamo un cervello che continuamente riceve stimoli sensoriali, già di per sé limitati perché non rilevano tutte le grandezze fisiche; pensa solo ad esempio ad alcuni uccelli che captano il magnetismo terrestre o alle piante che sono sensibili ai gradienti chimici. Questi stimoli vengono poi fatti convergere in un modello mentale che si aggiorna continuamente in base agli stessi, per darci l’idea di quello che ci circonda, o meglio ciò che varia dell’ambiente in cui siamo immersi, perché
Noi rileviamo i cambiamenti delle cose, non le cose stesse.
Una “cosa” di per sé non ha significato. Come quella “cosa” cambia, evolve, si trasforma, genera in noi un'”idea” della cosa stessa, a cui leghiamo un significato, che utilizzeremo successivamente. L’autore si spinge a dire che
il non vedere la realtà è fondamentale per la nostra capacità di adattamento.
Con questo intende che siccome il nostro cervello è continuamente impegnato a dare significati a cose che non ce l’hanno, questo processo ci porta ad un continuo confronto con il mondo esterno, ed è proprio questo che lo rende plastico. Non possediamo quindi una mente “marmorea” con le informazioni scolpite al suo interno ma, al contrario, la sua forma varia continuamente e noi stessi possiamo influenzare questo processo.
Avere un’idea più chiara del funzionamento del nostro cervello ci permette di vedere i modi più sottili in cui le esperienze passate non soltanto ci condizionano, ma ci creano. Sapendo questo, possiamo imparare a padroneggiare i principi di base del cervello e quindi generare dei nuovi passati che modificheranno la percezione da parte del cervello stesso di future possibilità.
Generare dei nuovi passati. Quando lessi queste parole, mi tornò in mente il concetto di perdono, di cui ho discusso nei passi precedenti, ma in tale contesto si tratta di “eliminare” un’errata interpretazione di un ricordo, che genera i suoi effetti nel presente. Questo è sicuramente utile per lasciar andare le zavorre che non ci permettono di proseguire, ma trovo molto più utile per cambiare le nostre percezioni attuali un altro tipo di azioni consce che possiamo intraprendere, poiché
le narrazioni che immaginiamo ci cambiano profondamente. Attraverso l’immaginazione di storie, possiamo creare delle percezioni, e quindi alterare i nostri futuri comportamenti basati sulle percezioni stesse.
La ripetizione, associata all’emozione, ci porta alla creazione di nuove credenze (di questo parlo approfonditamente nel passo Universi paralleli del Sé), le quali cambiano la nostra percezione e, in definitiva, le nostre esperienze. Non esiste quindi solo un mondo esterno percepito, ma anche uno interno modellato dalle esperienze e dalle nostre narrazioni (che divengono altre esperienze), quindi sono d’accordo con l’autore quando afferma che
Siamo il nostro stesso contesto.
Confermiamo continuamente quello che possiamo e non possiamo fare, fin dove possiamo spingerci e dove ci costringiamo a fermarci. La cosa interessante è che questi limiti autoimposti vengono modificati continuamente (sperabilmente ampliando le nostre possibilità), semplicemente cambiando le nostre convinzioni di base.
I nostri assunti (cioè la connettività fra i neuroni che costituisce la nostra storia passata) determinano i confini e tutto ciò che ricade al loro interno – e quindi la struttura e la dimensionalità del nostro spazio del possibile.
Mi piace il concetto di “spazio del possibile” e quello che ho capito nel tempo è che possiamo alterarlo, sia dando spazio a nuove forme-pensiero, sia rimuovendo tutte le catene che ci legano, e un metodo controintuitivo per spezzare queste catene è il perdono, perché
perdonare significa dimenticare un vecchio significato.
Questo è il punto di vista dell’autore mentre io, volta dopo volta, nelle riflessioni che riemergono spesso nei miei passi su questo potente strumento, sono giunto alla conclusione che il perdono è la cessazione degli effetti attuali di un evento passato. Ciò implica che, se qualcosa non ha più nessuna influenza sul nostro presente, di fatto è come non fosse mai accaduta, e questo ci dona nuovamente il potenziale che quell’evento ci aveva tolto (anzi, che continuava a toglierci), che ritorna quindi al nostro spazio del possibile. Non sottovalutare mai il perdono: darlo giova più a te che al perdonato, soprattutto quando il perdonato sei tu.
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