• Marzo 2015 •

Un altro passo con Osho, non ricercato sulla scia dell’interessamento che avevano suscitato in me le prime due letture, ma piuttosto posatomi fra le mani dalla serendipità. Sto parlando di In amore vince chi ama, per affrontare un tema che sicuramente viviamo a modo nostro, ma possiamo considerare da diversi altri punti di vista. L’affermazione che ritrovo nella prima sottolineatura è

L’amore è l’incontro di due anime e la sessualità è l’incontro di due corpi. La sessualità è animale, l’amore è divino.

Qui, a mio avviso, non va inteso il termine “animale” con un’accezione negativa, o peggio ancora che pone l’atto sessuale come qualcosa di livello inferiore rispetto a quello che il nostro Io crede di essere. Probabilmente un termine più dolce potrebbe essere “umano”, che qui è contrapposto al “divino”, senza accezioni religiose, quanto piuttosto riferito a ciò che ci illumina. Sono comunque idee che non sono in contrasto (corpi/anime, animale/divino), ma che io immagino quasi come degli ipotetici punti di contatto, o meglio i primi come dei mezzi e allo stesso tempo dei vincoli per giungere ai secondi. Questo mio sforzo interpretativo (e sicuramente tu ne avrai fatto un’altro che porta a conclusioni diverse) probabilmente è inutile, in quanto stiamo cercando di utilizzare parole per definire esperienze che non possono essere descritte tramite il linguaggio e in fatti Osho scrive:

L’esistenza non ha un nome specifico, è senza nome: non appena si nomina qualcosa, prende vita l’oggettivazione del mondo.

Dare un nome a qualcosa le toglie parte del significato originario o, nel peggiore dei casi, ne aggiunge di nuovi derivanti dal nostro Io, trasferendo informazioni errate al nostro interlocutore (o a noi stessi). Se prendessi alla lettera quanto ho appena scritto, dovrei smettere immediatamente di far cadere parole su questa pagina, ma voglio sperare (quasi in maniera impertinente) che pur lasciandoti pensieri che sono lontani dal significato originario, questi siano il mezzo per avvicinarti a nuovi livelli di pensiero, paradossalmente spogliati di tutti gli strati che continuiamo a posare, definizione dopo definizione, nella ricerca della comprensione. Questi strati ci portano a creare un “sé” che Osho definisce in questo modo:

La tua infelicità è dovuta al fatto che tu hai creato un sé del tutto inesistente, pertanto, a volte, questo sé irreale soffre sconsolato amando gli altri, e questo perché dall’irrealtà non è possibile alcun amore.

Torniamo al tema ricorrente del sé, quello che noi pensiamo di essere, creato addirittura da noi stessi, contrapposto a cosa veramente siamo, senza la necessità di costruirci nulla sopra. Se pensiamo al sé costruito, allora anche l’amore sarà costruito, artificiale, mediato dalla nostra stessa idea che abbiamo dell’amore. Spesso siamo confusi dall’idea dell’amore, ma la sottolineatura successiva, a mio parere, ci regala una sfaccettatura inaspettata:

Quando non avete bisogno dell’altro, allora potete amare.

Ricordo ancora quando ho cercato di spiegare a mia moglie questo significato dell’amore. Eravamo seduti nel nostro letto, una sera come un’altra, poco prima di coricarci. Mi stavo confrontando con lei sulle mie idee, nate spesso da spunti di lettura come questo, e le dissi “Io non sto con te perché ne ho bisogno, ma perché pur valendo quanto ho appena detto, l’esserti accanto è fonte di felicità e di arricchimento personale”. Non ti nego che non è stato facile far discutere di un tema così profondo a valle di quanto appena affermato, perché in prima battuta una persona, sulle parole legate al non essere necessaria all’altro, prova umanamente un senso di inutilità, se non quasi di rifiuto. Invece è proprio la non necessità dell’altro che ci permette di amarlo, anziché portarci ad un mero interesse nei suoi confronti per un nostro qualsiasi tornaconto. Proseguendo su questo filone, ricollegandosi al sé immaginario definito qualche riga prima, Osho afferma:

L’amore può donarti solo una cosa: la consapevolezza di non essere, il riconoscere che il tuo sé è solo immaginario. Questa comprensione tra due persone le rende all’improvviso una, perché due nulla non possono essere due. Due qualcosa saranno due, ma non due nulla: due nulla iniziano a fondersi e a dissolversi. È inevitabile che diventino un’unità.

Il concetto di due nulla che non possono essere due, ma costituiscono un’unità (solo quando non sono più due qualcosa) ha dato il via in me ad una riflessione che, partendo da due persone che si amano, mi ha portato a un concetto di unità ben più esteso, che include ogni cosa. In La mente che mente avevo appena accennato al concetto di quello che da qui in avanti chiamerò “tutto unico”, un tutto di cui io sono una parte e che non esisterebbe senza di me (e di te). Un tutto “interconnesso” dove tutti i “nulla” di prima sono un’unità, fino a che non creano il proprio sé diventando “qualcosa”.

La prossima sottolineatura racchiude un piccolo suggerimento per tutti quelli che tentano di meditare, ma non riescono a trovare la giusta concentrazione.

La distrazione non è una realtà oggettiva, non è fuori di te; è qualcosa dentro di te. Tu non riesci ad accettare, ad accogliere, a includere, perciò ti senti infastidito; se accetti, il fastidio svanisce.

Non avete un angolo per voi dove sentirvi al riparo da qualsiasi disturbo? Ci sono dei rumori di sottofondo che vi distraggono? O al contrario il silenzio è troppo e vi chiedete il perché, visto che non siete abituati a una tale pace? Qui Osho consiglia semplicemente di accettare quella distrazione, che è all’interno di noi, perché altrimenti useremo tutte le nostre forze per combatterla, e saremo concentrati solo in quell’attività, senza spazio per altro. Nel libro viene citata una piccola storiella riguardo un tizio che non riusciva a dormire in una locanda, perché continuamente disturbato dal latrare dei cani all’esterno. Il suggerimento fu quello di accettare, addirittura apprezzare quei latrati, per riuscire finalmente ad addormentarsi. Pur essendo controintuitiva, questa tecnica porta direttamente al risultato di eliminare la distrazione o ciò che ci infastidisce, permettendoci di rimanere centrati su di noi. Provala anche tu, anche se quasi sicuramente sei scettico a riguardo. I momenti meditativi, accettando come appena descritto tutto quello che accade, non dovrebbero essere confinati a pochi minuti al giorno in angoli di tempo che riusciamo a ritagliarci, ma piuttosto divenire un approccio che ci accompagna in tutto il corso della giornata. Questo significa che la meditazione, intesa come l’essere presenti, può divenire man mano uno stato che ci accompagna nel vivere la nostra vita completamente, dove

anche ciò che è apparenza fa parte della realtà

perché l’apparenza generata dalle nostre menti è comunque parte della nostra realtà che stiamo vivendo in quel momento, e lo sforzo per eliminarla ci allontanerebbe dalla ricerca del nostro centro. Questo cammino ci porta ad accrescere la nostra esperienza, togliendo man mano le credenze che ci hanno o ci siamo imposti, come troviamo nella prossima sottolineatura:

Come puoi credere in qualcosa che non hai conosciuto? E se conosci qualcosa, non c’è alcun bisogno di crederci; pertanto, in qualsiasi caso credere è comunque ridicolo: o sai oppure non sai! Se sai, non c’è alcun bisogno di credere; se non sai, come puoi credere?

In questo processo, soprattutto quando cerchiamo di comunicare con qualcuno per renderlo partecipe delle nostre scoperte, ci scontriamo con il linguaggio che utilizziamo, perché

tutte le affermazioni definiscono

ma utilizzare un etichetta per ogni cosa è la via per allontanarsi dal suo significato, ed è quello che la nostra mente ci porta a fare. Osho delinea questa dicotomia:

Il corpo è mente visibile, la mente è corpo invisibile.

e ci invita a vivere ogni esperienza senza necessariamente definirla:

Non usare parole. Quando ti accade qualcosa di nuovo, permettiti sempre di dare uno sguardo in profondità, senza far uso di nessun linguaggio.

In questo modo, saremo in grado vivere pienamente l’esperienza, senza limitarla con la definizione che prima di tutto noi stessi diamo alle cose che ci accadono.

Rimangono da esplorare nuovamente due segnalibri, lasciati al momento della prima lettura del libro, per riscoprire dove la mia mente si era soffermata in cerca di nuovi punti di vista.

La malattia dell’ego

In un capitolo del libro, Osho si sofferma sul concetto di quanto realmente tu e una sedia nella stanza in cui ti trovi siate effettivamente due oggetti separati. Ovviamente, sia io che te che stai leggendo queste parole troviamo veramente paradossale anche solo porsi una domanda del genere. Come già detto in precedenza, lasciamo però che i nostri schemi mentali non siano un vincolo, e proviamo solamente ad avere un atteggiamento aperto, non necessariamente di accettazione incondizionata. Per fortuna Osho prosegue con un altro esempio che può essere utile per comprendere cosa intende. Immagina di lanciare un sasso su di un muro, che vi rimbalzerà contro, oppure di lanciare lo stesso sasso nell’aria, che attraverserà. Ora pensa ai raggi X, che possono tranquillamente attraversare il muro. Per i raggi X, il muro risponde come aria, quindi questi non sanno se stanno attraversando aria o muro. Ora fai ancora un piccolo sforzo ipotizzando di essere negli anni in cui i raggi X non erano stati ancor scoperti. Sicuramente non avresti considerato possibile che esistesse qualcosa che attraversasse i muri, a differenza di Marie Curie (o meglio Maria Salomea Skłodowska) che aveva una consapevolezza diversa dagli altri. Infatti, in estrema sintesi

la qualità della nostra consapevolezza dipende dal modo in cui vediamo le cose.

Per una nascita consapevole

In un altro capitolo, Osho inizia una digressione sul desiderio di una donna di diventare madre e sulla frustrazione conseguente derivante dal fatto che questo non accada. Osho non le definisce in questo modo, ma io credo che per comprendere meglio quello che sto per scrivere, possiamo considerare quelle che noi chiamiamo aspettative. Osho afferma:

Non chiedere nulla all’esistenza, ed ecco che sarai sempre felice. La pretesa comporta frustrazione, una mente che pretende è sempre una mente sbagliata; quando pretendi o chiedi qualcosa non sei in pace con il cosmo.

Quando creiamo un’aspettativa futura (la reazione di una persona a un nostro atto, il raggiungimento di un obiettivo oppure l’accadere di qualcosa solo perché ce lo aspettiamo), a volte anche nei minimi dettagli, nasce di conseguenza una sorta di tensione che poi sfocia in una delusione quando ciò non accade. Cominciamo quindi gradualmente a non avere aspettative (e questo non significa assolutamente vivere in maniera apatica), accettando quello che ci accade. La mancanza di aspettative non genera vuoto, ma piuttosto ci porta ad essere più rilassati, permettendoci di essere grati per quello che avviene intorno a noi, ma di questo parleremo in un prossimo passo.

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